PITTURA PLASTICA
Alberto Barranco di Valdivieso
Nella ricerca di Nicoletta Borroni scultura e pittura concorrono alla dimensione unitaria di un’architettura della forma assoluta; forme simmetriche in legno dipinto, costituite da incastri esatti di molteplici parti che sono singolarità votate all’unità del tutto, espressione di un pensiero razionale che riflette sul significato di spazio pensato e spazio fisico. Questi oggetti, sospesi in modo equanime tra questi due mondi, presentano un rapporto platonico tra volume e superficie, tra geometria pura e colore, tra azione e immaginazione, e dunque tra percezione della realtà e indagine della possibilità. Le opere della Borroni, attraverso la geometria, simmetrica e composita, e le sue inclite regole matematiche, cercano l’Assoluto, immanente, svincolato dalle incertezze del Caos della materia libera.
Archi-tettonica. In questo Borroni rientra perfettamente nei termini di una ricerca “tettonica” ovvero di una indagine che persegua il difficile compito di unire l’arte/pensiero alla costruzione/oggetto. Infatti ella stessa riferisce l’importanza della scuola di Louis Kahn, uno dei più grandi maestri dell’architettura brutalista-funzionalista, nel quale l’artista ritrova solidi riferimenti euclidei; il senso di unità monolitica di un tutto formato da parti-ingranaggi perfettamente coerenti con un principio di entelechia interna, ovvero una ragione che muova, giustifichi e organizzi ogni singola parte-monade in un tutto armonico; una ragione-principio-genesi che Borroni vuole rendere manifesta a noi che osserviamo proprio attraverso il prodotto di una forma definita. Il riferimento all’architettura non è un fattore di margine per Borroni, anzi. L’artista dichiara che i richiami principali della sua ricerca sono appunto Kahn, Adolf Loos, l’architettura classica della Grecia antica e il Razionalismo.
Inoltre sussiste evidente una sua riflessione critica riguardo l’esperienza storica del Minimalismo che pone Borroni genericamente nell’area post-minimalista. Ed è proprio il prefisso “post” ad esprimere chiaramente una distanza strutturale e teoretica della ricerca di Borroni dai valori costitutivi del “minimalismo”; un ”dopo” che è un riferimento temporale che ne definisce il distacco. Eppure in questa analisi sarebbe errato ignorare l’evidenza di alcuni macro-temi minimalisti che l’artista ricalibra secondo le sue intenzioni, per esempio il problema dell’oggetto nei confronti dello spazio che lo contiene; la supremazia concettuale del progetto sull’azione automatica e fisicamente artigianale della composizione; l’ortogonalità e gli assi di simmetria della struttura; il rapporto tra superficie e sagoma; la scansione del singolo elemento nei confronti del tutto finito (nella quale esiste il problema di comprendere il Tempo quale discriminante assoluta nella definizione dello spazio in relazione all’agire umano); il tema del colore come elemento dialettico, assai “sofferto” dai minimalisti.
Spazio e Pittura. L’artista muove la sua ricerca oltre ogni possibile compromesso con relativismi più o meno speciosi (sia di tipo intellettuale che socio-politico) che rinnega, conducendo il fruitore in una dimensione di lettura in cui l’oggetto non cerca un accordo/mediazione con lo spazio, non realizza la sua forza attraverso una “relazione ambientale”, come in Donald Judd ad esempio, piuttosto impone il suo sistema con carattere di assolutezza, come una “apparizione” nello spazio da cui in realtà continua a distinguersi.
Ed è proprio il vettore dell’assoluto che in sé esprime un’astrazione lirica, ad essere istruito dall’uso intenso, fondante della pittura. I suoi solidi poligonali, infatti, potrebbero sembrare rigidi nello sforzo della categorica perfezione cui sono destinati se non vi fosse proprio il concorso della pittura a confermare l’intensità e la densità di questa direzione. Se questi lavori rimanessero nudi, esponendo il semplice materiale di cui sono composti, sarebbero inerti, ciò ne inficerebbe non solo l’efficacia estetica ma la stessa credibilità linguistica. Ecco allora esistere la pittura, essenza costitutiva paritaria al volume, e dunque presenza in fusione con il tutto della forma.
La pittura è l’elemento capace di ricalibrare l’intera struttura secondo la tensione lirica, espressiva, e dunque narrativa, che una forma nuda non potrebbe mai evocare. Parliamo di una narrazione non manifesta, non didascalica, piuttosto lasciata in sottotraccia e affidata su due campi alla sensibile percezione del fruitore: da un lato sollecitare il pensiero razionale che apprende le forme della geometria composita, dall’altro destare la sensibilità automatica della mente umana che reagisce al colore creando immagini psichiche e suggestioni individuali.
Questa azione emozionale è propria del tradizionale campo della pittura. La tela/piano, infatti è il luogo ove attraverso il segno e il colore, si possano suggerire, oltre ogni relazione oggettiva reale spazi creati in chi guarda attraverso una dinamica di riflesso psichico; luoghi che il fruitore ricalibrerà secondo proporzioni e suggestioni non tangibili nel campo reale. La trasformazione da immagine dell’oggetto (che si guarda) a visione di un altro spazio mentale e sensoriale (che si vede), svincolato dall’ordine fisico della natura e dalla logica della congruenza, è il miracolo di transustanziazione del corpo inanimato dell’oggetto in corpo vivo del pensiero.
Riguardo la pittura ricordiamo quanto fosse una questione importante da risolvere per i Minimalisti della prima ondata, come Robert Mangold che si interrogava continuamente su come determinarne un ruolo non primario ma giustificativo rispetto alla creazione della forma-superficie, non riuscendo spesso ad evincere una posizione teorica realmente coerente.[1] Nel caso di Donald Judd, nei primi Sessanta, il dilemma fu da lui risolto alla radice assolvendo la forma dalla necessità del colore, lasciando il materiale a vista, muto di ogni possibile intenzione di linguaggio che non fosse la semplice oggettualità plastica nello spazio di accoglienza[2]. Nel caso di Borroni e degli autori che chiamiamo “pittori plastici” il colore non completa, il colore non copre e non giustifica; il pigmento della pittura è parte integrante del momento di ideazione della forma, è innestato nella sintassi dell’opera come un suono abbinato alla sua nota: indisgiungibile.
Bellezza e Verità. Nicoletta Borroni probabilmente ricerca una dimensione di pace, comunque di equilibrio, senz’altro di ordine e di bellezza assoluta. Forse vi è il desiderio di costruire un oggetto che sia la sintesi di un tutto sfuggente, un’opera che catturi il mistero che affligge le nostre esistenze e che ci spinga a cercare una soluzione alla cognizione della vita.
Durante diversi incontri con l’artista, avuti nel suo studio, chi scrive ha riscontrato in Borroni il desiderio limpido, quasi chirurgico di chiarificare la realtà attraverso posizioni nette riguardo le cose, tutte le cose della sua vita, passata e presente; dalle scelte politiche a quelle sociali, dal suo privato alle posizioni di principio etico e deontologico nei confronti della sua stessa professione d’artista. Un atteggiamento che richiama il senso di una sua forte tensione verso il principio di sincerità. In questa direzione allora ci sembra più probabile che da parte di Nicoletta Borroni, sia come artista che come persona, sussista potente una tensione verso la verità assoluta quale condizione di bellezza in toto, bellezza cioè che non si risolva solo nell’estetica della forma. La tensione verso la costruzione di un oggetto esemplificatore di tali assoluti propositi la troviamo nel pensiero di Heidegger, richiamandone i ragionamenti proprio sul tentativo di affrontare l’immane tema del dolore (e della paura/pericolo della morte) che tutti coinvolge. Infatti seguendo i principi del filosofo tedesco, realizzare anzi catturare la bellezza assoluta creerebbe il presupposto di una verità chiarificatrice altrettanto assoluta e dunque l’allontanamento della sofferenza causata dalla mancanza di verità soprattutto con sé stessi. Nella dialogica heideggeriana è chiara l’identificazione dell’oggetto d’arte – ricordiamo il principio per cui l’arte trasforma una semplice cosa in opera – come uno strumento per raggiungere l’evento dell’illuminazione dall’oscurità/dolore/ignoranza (Lichtung) cioè la verità. Essendo l’opera d’arte strumento di disvelamento della verità assoluta, essa è il mezzo per esprimere la bellezza assoluta: “Ponendosi in opera, la verità appare. L’apparire, in quanto apparire di questo essere-in-opera e in quanto opera, è la bellezza. Il bello rientra pertanto nel farsi evento nella verità”.[3] Lo stesso filosofo esemplifica l’esercizio della bellezza in un oggetto fisico, che rappresenti, quale opera d’arte, la cura al dolore esistenziale, vibrante e continuo, che per Heidegger non si può controllare ma solo percepire e accettare; dolore che tende a disgregare le parti del nostro “Io” tanto più noi tentiamo di ridurlo, ignorarlo, sminuirlo, e così facendo condannandoci all’oscurità del falso[4]. Dunque se una “forma unitaria e armonica” può realmente esistere, cioè si può realizzare, allora quella stessa forma perfetta è l’immagine oggettiva della soluzione possibile, almeno in termini teorici, al persistente dolore esistenziale che affligge l’Uomo e l’arte ne rappresenta uno strumento efficace. Bisogna dare forma al rimedio ossia la Verità; reagire creando un oggetto portatore e esemplificante la bellezza, che pacifichi il dolore attraverso l’esemplificazione della verità. In questa realizzazione il punto focale è proprio il concetto di accettazione ovvero “fare entrare/fare attraversare”, dunque essere permeabili alla sofferenza. La permeabilità pone in essere un passaggio attraverso una soglia (limen) da una realtà ad un’altra, da uno stato ad un altro, ovvero tra due opposti distinti della stessa materia; un transito che inevitabilmente distingue due ambiti rispetto ad un limite. Limite (limen non limes) come punto di relazione/distinzione tra qui e là, tra prima e dopo, insomma tra due antinomie. Tutto questo non è altro che l’immagine dell’oscillazione tra gli opposti che sussiste all’interno del concetto di Bellezza/Verità che per il filosofo tedesco appunto oscilla continuamente tra illuminazione e oscurità, tra disvelamento e manifestazione. Sembra esatta per questo passaggio la celebre frase di Rainer Maria Rilke, “poeta heideggeriano”: “la Bellezza è solo l’inizio del Tremendo”[5] cioè di ciò che va esattamente all’opposto; bello e orribile sono solo due stati della stessa materia separati dal limen ma collegati dal movimento oscillatorio che li pone in una dinamica di trasformazione. La funzione ontologica della bellezza è dunque quella di unire enti in antinomia in apparenza incompatibili come reale e ideale, finito e infinito, oggetto e idea, immagine e visione, fino allo stesso bello e tremendo. In questo senso l’arte è la condizione oggettiva che si fa medium di dimensioni polari, luogo di incontro di antinomie assolute secondo la spinta di una eterna e insopprimibile sete di verità.[6]
Tensione lirica. La tensione lirica di Nicoletta Borroni, ovvero la dichiarazione di un principio di bellezza/verità possibile, oltre la delizia del particolare (riduzione della verità, inibizione dell’accettazione), si rivela sia attraverso il rigore estremo di una forma geometrica tridimensionale composita che nello spazio del colore altrettanto composito da molteplici stratificazioni. La presenza di un colore “dipinto” che si pone in tutte le facce del volume, sia come segnale primario dell’opera così come segnale degli elementi che la compongono, è declinazione estetica dell’intera struttura e non solo semplice servizio del volume.
Pittura dunque, realizzata con l’assistenza di uno spruzzatore a compressione (Claudio Olivieri, grande pittore aniconico, usava questo strumento) manovrato dal gesto esperto dell’artista a creare le tessiture di colore – cioè particolari precipitazioni di gocce di pigmento acrilico colorato, secondo passaggi sovrapposti (anche venti o trenta) condotti con inclinazioni del polso calibrate (il suo docente in Brera e primo curatore lo storico Flaminio Gualdoni le ha sempre ripetuto che la pittura nasce dal polso) – che restituiscono alle superfici dei suoi solidi, grazie alle grane diverse delle gocce che si sovrappongono irregolarmente passaggio dopo passaggio; un senso di porosità ottica che assorbe la luce illuminando le cromie e restituendo un effetto ambiguo, tra la pietra e la spugna. Questa ambiguità cromatica che imita qualità materiche opposte nello stesso momento perturba la nostra percezione del “monolitico tutto” e dunque sublima la dinamica di un oggetto che si “muove”, che “pulsa”.
Gli oggetti di Nicoletta Borroni suggeriscono il mistero di qualcosa che rimane in sospensione tra la sua dimensione fisica compatta e la nostra dimensione psichico-percettiva.
Geometrie assolute. Nell’artista lombarda non possiamo ignorare, proprio in nuce alla sua passione per l’architettura classica greca antica ma anche classico-razionalista moderna, i riferimenti alla cultura umanistica, di matrice platonica, del primo Rinascimento. Uno di questi è senz’altro “De Divina Proportione” di Luca Pacioli (scritto tra il 1496 e il 1509)[7] in cui, nella geometria e dunque nella matematica con speciale attenzione alla “sezione aurea”, alla geometria poligonale e alle proiezioni, si riconoscono le chiavi universali per comprendere ( e dunque dominare) la Natura, ovvero l’inferno del disordine, fisico e psichico, che minacciava l’uomo medioevale, succube del Mistero e dunque vittima dell’ignoranza di quelle norme che secondo gli ideali umanistici avrebbero potuto chiarificare la Quintessenza divina.
A quel tempo, proprio in quei principii di ordine geometrico proporzionale, assunti come supremo risultato dell’equilibrio, gli umanisti riconoscevano il concetto di unione universale realizzata tra mondo fisico e mondo ideale. L’Uomo Nuovo rinascimentale, attraverso la catarsi matematico-razionale che ossessionava intellettuali-progettisti come Filarete e Leon Battista Alberti, scienziati come Keplero, trattatisti come Leonardo e pittori come Paolo Uccello, Domenico Veneziano e il suo eccezionale allievo Piero della Francesca, finalmente realizzava nell’arte un momento di “ristoro psichico” e di applicazione della Divina Armonia[8].
Dopo più di cinquecento anni, nell’era iper-moderna che viviamo, noi tutti ci ritroviamo con gli stessi dubbi di allora, nonostante la tecnologia e la massa infinita di nozioni che ci sommergono e che in realtà sottraggono tempo alla pausa creativa del pensiero, ed avvertiamo ancora oggi la mancanza di conoscenza previsiva delle cose del Mondo come un disagio esistenziale profondo.
Oltre il minimalismo. Borroni giunge al connubio tra pittura e volume dopo un lungo percorso formativo sia all’ Accademia di Brera che tramite il suo maestro Rodolfo Aricò non ché grazie all’attività svolta per alcuni anni nello studio milanese di scenografia di Franco Cheli, allo stesso modo sono stati altrettanto importanti gli approfondimenti di architettura e filosofia. Grazie all’esperienza con i maestri, lo studio e l’osservazione delle diverse discipline, sia progettuali che artistiche, l’artista ha plasmato il senso di una ricerca sempre più personale e definita. Nel suo bagaglio di conoscenza sussistono le esperienze della storia dell’arte contemporanea minimalista e concretista, infatti le leggiamo come costituenti di una via propedeutica, spunti di riflessione in progressivo inevitabile contrasto con le intenzioni che, con il passare degli anni, si sono sempre più chiaramente definite. Crediamo interessante richiamare temi come la relazione spazio-oggetto-fruitore del minimalismo plastico; il senso del colore come segnale, tema del costruttivismo concreto di matrice svizzero-tedesca nato da Max Bill (Hans Glattfelder, Wolfram Ullrich fino a Gerold Miller); la costruzione composita delle sculture di Frank Stella (le Sinagoghe) e Terry Athkinson (Enola Gay Works) degli anni Settanta; le “shaped- canvas” di Enrico Castellani e Agostino Bonalumi; i concretisti italiani come Rodolfo Aricò, Bruno Munari e ancora di più Gianfranco Pardi (Giardini Pensili), Giuliana Balice, Andrea Cascella e la pittura neo-costruttivista astratta di Richard Diebenkorn e dello stesso Pardi, e infine, proprio per l’aspetto specifico della pittura la cosiddetta scuola aniconica di “Pittura-Pittura” per il carattere di sintesi estrema tra tessuto pittorico e intensità cromatica.
Eppure Nicoletta Borroni, come dicevamo, ha saputo trarre da tutte queste ricerche del passato un suo personale indirizzo pittorico che assume in sè le sperimentazioni precedenti superandone gli intenti di programma. Ricerca che riconosciamo all’interno di un gruppo di esperienze che chiameremo in questa sede e per la prima volta “Pittura Plastica”, nella quale cioè il volume, i materiali, i meccanismi tridimensionali complessi sussistano in un unicum con la pittura, nel tempo del progetto, nell’istante della creazione, articolando e mediando le ragioni della forma-volume che la “sostiene”. Nelle ricerche di Castellani e di Bonalumi questo non accadeva perché il colore doveva soggiacere al primato di un volume curvilineo che ne regolava gli effetti d’ombra, perché la luce “in caduta”, non il colore, era l’elemento costruttivo, come ricordava nel 1966 lo stesso Germano Celant in uno dei suoi primi scritti dedicati a quegli artisti[9]. Nella Pittura Plastica – di cui adesso non approfondiamo specifiche di “gruppo” rimandando ad altro studio un’articolazione approfondita – è il pigmento che si fa fulcro nell’esprimere e manifestare la vocazione sensibile e psichica dell’oggetto oltre il valore ottico-spaziale del suo volume.
SHAPES AND FORMS
Flaminio Gualdoni
E’ soprattutto nel corso degli anni Settanta, sotto la spinta della rilettura di fenomeni cruciali del dopoguerra come color field, hard edge, monocromia, da un lato, e di figure liminali come Agnes Martin, Mario Nigro, Rober Ryman, dall’altro, che l’indagine critica si orienta a privilegiare il momento riflessivo, di analisi sistematica delle nozioni e della pratica della pittura, rispetto a quello dell’espressivo e di un più affondato e compresso radicamento nella tradizione disciplinare e formale.
In Italia tale fenomeno si integra e contamina criticamente ed espressivamente con fattori di ben diversa natura. Non solo il liciniano “la geometria può diventare sentimento” ma anche, e più, la ripresa di un’idea di classico fondata sulla commensuratio albertiana, ovvero sulla forma geometrica come principio proporzionale anziché metrico, dotata dunque d’una sua schiarita logica generativa, capace di farne organismo anche nella più distillata non referenza.
Le vicende espressive di un Giuseppe Uncini, di un Rodolfo Aricò, di un Gianfranco Pardi, indicano in modo netto la prospettiva del superamento per vie interne tanto della cultura autre quanto delle retoriche dell’astrattismo di marca classica. Senza deroghe disciplinari ed esibizioni di eccentricità tecnica, la loro scelta di operare all’interno del codice pittorico e scultoreo, proprio alla misura rinascimentale ha guardato, in una sorta di sacralità della pittura – e della scultura – in cui si riveli, davvero, il divino della proportione.
E’ da quel terreno di coltura, che cresce il lavoro nuovo di Nicoletta Borroni. Estranea al dover essere corrente dei gusti in arte, ferocemente fedele all’imperativo di un pittorico che , per dar senso, non debba fuoriuscire da se stesso, Borroni declina negli anni una complessa articolazione geometrica della forma, le cui matrici tutte si identificano nel principio mentale ed espressivo della grande architettura classica. Non lavoro di compitazione infinita di possibili formali, la ricerca di Borroni si concentra sull’identificazione di un principio di sviluppo, nel quale risieda la logica di generazione – in se stessa organica – della forma, dell’immagine.
Il suo lavoro di oggi, frutto dei primi segni d’una maturità ancora inquieta di domande ossessive alla pittura ed ai suoi possibili, è saldo su certi tòpoi del fare, sul riferimento alla tradizione antica e nuova: la sagomatura del supporto, pronta a contaminarsi con lo spazio fisico d’esperienza, in proiezione oggettiva, senza perdere nulla della propria autonoma identità. In queste forme di complessa interrogatività, piuttosto che affermazione apodittiche crescono suggestioni ed echi simbolici, rimontanti alla tradizione più antica e aristocratica dell’arte, ed una incoercibile volontà di senso.
NICOLETTA BORRONI, FIGURA D’ARISTA
Enrico Baleri
Conosco Nicoletta nel 1998, allieva di Rodolfo Aricò, un carissimo amico, un grande artista, forse tra i più grandi dei miei amici stretti. Certamente il più sorprendente, quello che nella vita e nella quotidianità ti appariva sempre curiosamente diverso. Lei era bella, è bella. Era molto seria e severa nei suoi giudizi, e non ha affatto perso quel tratto del suo carattere. Ama la verità. Quando cerco di trasformare il suo nome da Nicoletta a Niki, forse un omaggio alla grande Niki de Saint Phalle, lei si oppone e la capisco. Quella voglia di colore e di stupore della Niki non le appartenevano. E’ meglio la verità che l’inclusione di colori e di fantasie. Quella verità secondo Nicoletta non la rappresentava, non come sostanza, non come decoro di un’ambizione sensitiva.
La sua pittura è architettura geometrica, rigorosa e al più la si può paragonare a quella di Louis Kahn, di Mies van der Rohe o del portoghese amico Eduardo Souto de Moura. Non è fatta di suggestioni, di impressioni, ma di vere sorprese tridimensionali. Le sue superfici sono un riflesso di colori a più mani. Cinque, sei, sette, fino a dieci. Fino a quando quella patina di colore la convince e la entusiasma. Diventa materiale indefinibile perché morbido e caldo al tatto, ma con l’austerità e il rigore della pietra, del marmo incolore e uniforme, senza incertezza, senza inclusioni. Nicoletta è tutta fatta di segni e le sue opere come lei. Non si abbandona alla contemplazione, ma lavora per arrivare alla perfezione. Il risultato è chiaro nella sua testa, ma fino alla fine dell’opera non ti appare perché è tutto in divenire. Le opere di Nicoletta sono belle come lei, sono spesso antropomorfe, ispirate alle geometrie, che sono già in lei, dentro di lei imperscrutabili.
Nicoletta è tutta fatta di segni! Già lo si vede in quell’afflato silenzioso con Rodolfo, il suo Maestro, dal quale ha appreso e al quale ha dato molto della sua sensibilità e della sua arte che si materializza senza plagi, senza contaminazioni, se non quelle che si verificano tra anime in perfetta simbiosi. Quando ho conosciuto Nicoletta e la sua sensibilità e ho preso coscienza della sua fermezza l’ho subito invitata al processo di artista in modo continuativo e professionale, tentando di superare le sue infinite riserve fatte di modestia e immodestia contemporaneamente. La modestia di non apparire e l’immodestia di fare opere di qualità al di sotto dei suoi sogni, dei segni che lei conosceva bene essere al suo interno.
Una sorta di ambiguità che frena la sua grande passione per l’arte a raccontarsi ed esprimersi, ma con l’aiuto non solo mio ma anche di amici comuni e di esperti che osservavano la sua grande passione e sensibilità, Nicoletta si mette al lavoro e esegue una sua prima opera che voglio in dono ed è così grande che trova spazio solo in un luogo felice nella mia casa di fronte al mare, uno spazio fatto ad hoc, dove quell’opera campeggia con rara armonia. E’ già un trompe l’œil, è già un’architettura, una forma ben delineata che si coniuga in forme diverse allo sguardo, è curiosamente magica la sua tridimensionalità.
Quel segno, quella traccia, che entreranno in lei definitivamente! Poco a poco le sue riserve ad apparire si spengono e nasce quel desiderio di mostrarsi al pubblico. La sua tavolozza è sempre alla ricerca di luce, ossessiva, il bianco è il colore che sta sotto ad ogni passaggio successivo che attraverso un’infinità di grigi tende al blu intenso. Il colore predominante a lei caro come il cielo, il mare, le ombre, i pensieri, tutte le passioni che avvicinano Nicoletta a quei valori. Nicoletta avrà un lungo futuro fatto di trasformazioni leggere leggere che lei dovrà condividere ossessivamente, ma certamente lascerà quel mare e la sua tavolozza si rinnoverà poco a poco. Questo sarà il suo evolversi, questo è il mio augurio con grande stima e vero affetto.